Come venni a conoscenza della caduta del Muro

Un racconto di Annalisa Molfetta

in onore dei trent’anni dalla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989)

 

Una mattina del 1989 scesi nell’ufficio di mio padre.

Papà comandava una stazione di Carabinieri sulle montagne al confine tra la Puglia e il Molise. Noi abitavamo in un alloggio gigantesco messo a nostra disposizione al piano superiore della caserma, e potevamo accedervi da una scala interna, in tutto simile a quella di un qualsiasi condominio. Quando mi annoiavo, mi era concesso scendere ad abusare di qualche foglio bianco e di alcune bellissime penne, a ruotare i timbri datari o a guardare mio padre scrivere velocissimo alla sua Olivetti (poi sostituita dai primissimi Macintosh). Come nella favola di Alice, tutto sembrava enorme dal punto di vista della mia statura di bambina: salire sulle sedie girevoli era una scalata, imprimere a fondo un timbro richiedeva una forza titanica. Il tavolino di vetro che fronteggiava le montuose poltrone in pelle del salottino d’aspetto era fonte inesauribile di cose interessanti. Si trattava magari di fogli non più utilizzabili, che io mi divertivo a tagliuzzare o a ridurre in striscioline (con somma indignazione della donna delle pulizie, la quale per giunta mi voleva – ricambiata – molto bene), ma soprattutto di cataloghi e riviste specializzate, che sfogliavo per carpire dalle immagini il senso che mi sfuggiva da quel labirinto serpeggiante di geroglifici che erano all’epoca, per me, le pagine scritte.

La copertina della rivista che vi notai quel giorno (sono quasi certa che si trattasse proprio della rivista «Il Carabiniere») mi sarebbe rimasta impressa nella memoria per sempre. 

Vi era ritratto un bambino che, con un martelletto giocattolo, batteva su un muro davanti a lui. A ben guardare, il bambino indossava un giubbino molto simile a quello che anch’io avevo, e il muro non era colorato uniformemente, bensì imbrattato – o almeno così giudicai – da murales, scritte ovviamente indecifrabili e vari disegni. Trovandosi su una rivista destinata a tutori dell’ordine, e messo in bella mostra su un tavolino in una sala d’aspetto, come se dovesse essere di generale ammonimento, ne dedussi che sicuramente quella fotografia rappresentava un atto criminoso, e che la signora delle pulizie responsabile del decoro di quei luoghi si sarebbe fortissimamente accigliata con quel bambino impertinente, che non solo prendeva il muro a martellate ma che presumibilmente lo aveva anche sporcato con i suoi colori. Certa che avrei riscosso pacche sulla testolina e compiacimento, convinta e squillante dissi a mio padre che non si fa così, che quel bimbo era stato proprio cattivo a scrivere sul muro e poi pure a romperlo col martellino! Mio padre si fece una bella risata. Mi rispose – contro ogni mia previsione! – che anzi quel bimbo faceva molto bene, e mi assicurò che ad ogni modo le scritte e i colori quasi certamente non erano opera sua. 

Ne seguì una spiegazione che purtroppo non ricordo. Ho viva e presente invece la sensazione di un cuore che si fa piccino piccino al pensiero che, come mi veniva progressivamente svelato, quel muro era stato costruito per dividere persone da altre persone, forse anche famiglie!, e la consapevolezza, man mano che ascoltavo, che quella copertina stava segnando la storia perché quel muro, proprio in quel momento in cui ne parlavamo, lo stavano buttando giù persone come noi.

Infatti, io e quel bambino vestivamo giubbotti un po’ troppo grandi per la nostra taglia, come dettava la moda di quegli anni; i grandi, poi, indossavano spalline e strani pantaloni e portavano tagli di capelli della cui natura io non mi sarei mai capacitata; e quando quella stessa sera in TV notai che anche a Berlino si seguivano gli stessi dettami di abbigliamento, i pantaloni si sollevavano fino alle ginocchia per scalare quel muro e salirvi in groppa come su una recinzione posta da qualcuno di cui ci si vuole far beffe; mentre grandi giubbotti e scomposte spalline agitavano striscioni e si davano a grandissimi gesti di allegra commozione, di liberazione, di sollievo senza fine.

Dentro di me mi congratulavo con tutte quelle persone, con tutti quei giovani che assomigliavano ai Duran Duran e con tutti quegli adulti che assomigliavano a Paolo Frajese, perché anche a me pareva veramente incredibile che tale bruttura fosse stata realizzata in un Paese come la Germania, che ci avevano insegnato a considerare un faro di civiltà, dal quale periodicamente calavano in Italia turisti ricchi e moderni o atleti dai fisici impressionanti e dai tagli di capelli ancor più improbabili. Ne conclusi che tale stonatura dovesse essere il residuo di un passato abominevole e vergognoso di cui i tedeschi in qualche modo dovevano essere stati prede – e su questo stavolta non sbagliavo. 

Con il passare degli anni, grazie a molta esperienza, tanti telegiornali, ore di Mixer di Giovanni Minoli, libri di scuola e poi di università, il tempo non ha sbiadito quell’immagine, anzi: ne ha allargato gli orizzonti. L’ho contestualizzata e riconosciuta per ciò che simboleggiava, e ancora adesso talvolta la accarezzo nei miei pensieri, perché rappresenta il mio primo ricordo di qualcosa di veramente epocale di cui posso in un certo senso considerarmi testimone.

Oggi che ho anch’io dei bambini, sui quali ancora incombe il vigile divieto di imbrattare i muri e che cominciano a farmi domande sulle immagini della TV o dei giornali, rifletto con sollievo sul fatto che una tale bruttura di muro, materiale o immateriale, non può essere alzato né nel nostro Paese né in altri che consideriamo fari di civiltà… O forse no? Quindi mi ritrovo a sperare, non senza una certa disillusa tristezza, che anche loro dovranno avere, un giorno in futuro, il diritto di guardare una copertina di una rivista in cui un loro collega bambino, impegnato nel duro mestiere di imitare i grandi giocando, abbatterà l’ultimo muro rimasto, e che tutti insieme la sera in TV – o più probabilmente in tempo reale sul loro smartphone – potranno congratularsi gli uni con gli altri di essersi liberati e sollevati, prendendo coscienza, col tempo, di aver assistito a qualcosa di veramente straordinario.

Annalisa Molfetta

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