Continua la rassegna letteraria dedicata ai romanzi candidati al Premio Strega.
RAGAZZO ITALIANO di Gian Arturo Ferrari
(a cura di Diletta Alaimo)
Primo romanzo di Gian Arturo Ferrari, racconta la vita di Ninni cresciuto nell’Italia del Dopoguerra. Bambino timido ma sveglio, con un forte desiderio di imparare limitato, però, dalla balbuzie, che il padre autoritario e la maestra non mancano di mettere in evidenza. Nella prima parte della sua vita, Ninni cresce nell’Emilia comunista con tutti i retaggi passati che ne derivano ma, successivamente, si trasferisce nella Milano impreditoriale dove l’amore per i libri e la cultura lo aiuteranno a crescere e staccarsi da una società in cui le diseguaglianze sociali sono ovunque tangibili.
La storia di Ninni si riflette su quella dell’Italia post guerra, spaccata in due e tutta da ricostruire: proprio come lui, diviso tra l’amore della madre e della nonna, sempre pronte a proteggerlo, e se stesso, divorato da un tormento interiore che nessuno, in realtà, ha mai compreso.
Gian Arturo Ferrari mette in risalto il ruolo fondamentale della scuola, non tanto come Istituzione, quanto come luogo di aggregazione, di scambio, di crescita individuale e culturale da cui partire per migliorare noi stessi ed il Paese. O, almeno, tentare.
GIOVANISSIMI di Alessio Forgione
(a cura di Cassandra Cicconi)
Il romanzo è ambientato a Soccavo, alla periferia di Napoli dove Marocco vive con il padre. È un ragazzo comune di quattordici anni, le sue giornate sono scandite dagli allenamenti di calcio, il liceo che non ha scelto, i fumetti di Dylan Dog e i compagni del rione, tra cui Lunno, l’amico più intimo. Fulcro centrale del libro è l’abbandono della madre, assenza assordante nella vita di un ragazzo che si affaccia al mondo degli adulti con dubbi, fragilità e solitudine.
Il libro è costituito da cinque fasi: il rifiuto, la rabbia per la madre che se ne è andata, la depressione per l’imminente bocciatura, fino ad arrivare all’accettazione e alla speranza. Una delle figure emblematiche del racconto è il padre di Marocco, a tratti freddo e severo, che si ritrova un figlio adolescente da educare. I due hanno un rapporto articolato, fatto da silenzi e sguardi che valgono più di mille parole. Non poca importanza assume l’ambientazione, la periferia, protagonista di malefatte e di un futuro migliore che appare lontano.
Il romanzo, a livello stilistico, presenta un dualismo: da una parte la realtà amara del quartiere, dall’altra i desideri di Marocco. Inizialmente il ritmo è lento, a tratti lentissimo, a rappresentare la routine del protagonista, la noia, le preoccupazioni, mentre nella seconda parte è veloce ed incalzante. Il cuore del racconto è il dolore di Marocco che lo sfinisce mentalmente e lo porta a sbagliare, prima di conoscere Serena, la luce che gli permetterà di rinascere.
BREVE STORIA DEL MIO SILENZIO di Giuseppe Lupo
(a cura di Silvia Camolese)
L’autore ripercorre la propria storia dalla più tenera età fino ad arrivare all’affermazione letteraria. Un’infanzia segnata da un inspiegabile, almeno a livello scientifico, mutismo, conseguente alla nascita della sorella, che ha profondamente determinato lo sviluppo intellettuale di quel bambino fattosi poi ragazzo e uomo. Con l’aiuto di una madre attenta che lo incita a seguire il ticchettio della pioggia per scandire le parole e le colte personalità della letteratura che gravitano in famiglia, il giovane autore riesce, con impegno e curiosità, a neutralizzare il suo disturbo del linguaggio facendolo diventare un trampolino per tutte le parole che verranno.
Questo racconto è un viaggio in treno di un film in bianco e nero in cui l’autore, attraversando l’Italia dalla Lucania fino alla Milano illuminista degli anni Ottanta, capitale dell’industria editoriale, accompagna il lettore, avvolgendolo del profumo della carta stampata, in un intreccio di ricordi e personaggi di spicco. Giuseppe Lupo riesce a coinvolgere nella ricerca della propria identità che, grazie ad un severo ed attento “padrino” e attraverso letture e studi approfonditi delle parole, giungerà alla conclusione che la scrittura è: guardare per raccontare, scrivere per dimenticare.
TUTTO CHIEDE SALVEZZA di Daniele Mencarelli
(a cura di Silvia Novara)
È l’estate del 1994, un giugno rovente sotto il cielo di Roma. Daniele ha 20 anni e una sensibilità smisurata, che gli esplode dentro e attorno e che lo porta a subire un TSO lungo una settimana. Nel reparto di psichiatria dove viene ricoverato, messo in mezzo e di fronte alle vite martoriate degli altri degenti, alle esistenze indifferenti di medici e infermieri, Daniele può smettere di nascondersi, scoprendo qualcosa di più su se stesso e sul dolore che gli tormenta l’anima, da sempre.
Perché la vita, soprattutto per chi ha un cuore grande e uno sguardo attento, è una faccenda crudele e, per difendersi da essa, Daniele non trova strumenti se non elevare un grido d’aiuto: “chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per quello che vedo, sento”.
In quel girone infernale, invece, tra mele cotte e un caldo che offusca i contorni, il protagonista entra in contatto con personaggi straordinari e comprende che, forse, è proprio attraverso gli occhi dei “matti” che è possibile riconoscere l’essenza delle cose. Sono gli altri i portatori della vera pazzia, quei “sani” che “non cedono mai, non si inginocchiano mai” a vivere un’esistenza fittizia.
“Tutto chiede salvezza” è un racconto crudo e umanissimo, che riesce a comunicare il dolore straziante che nasce da un’empatia profonda verso la sofferenza altrui e che rivela la fragilità della condizione umana attraverso una prosa che scivola leggera in bilico tra poesia e dialetto. Una storia che arriva comunque e sempre dritta al cuore e fa dono al lettore di una galleria di personaggi indimenticabili, pronti a depositarsi in fondo all’anima.