È morto Pantani. È con queste poche parole che mio padre, il 14 febbraio 2004, irrompe con una telefonata in un pomeriggio di studi universitari. La voce rotta di un tifoso, che, insieme a tanti altri, aveva seguito le gesta del Pirata, incitandolo a bordo strada o davanti allo schermo della TV.
È morto Pantani e oggi, a pochi giorni dal diciassettesimo anniversario di quella data funesta, il mondo del ciclismo e dello sport in generale ancora si fa tante domande, alle quali è sempre più difficile dare una risposta. Ma poi, c’è veramente qualcuno capace di poter dire davvero come sia andata? Chissà. Forse neanche lo stesso Marco, se avesse la possibilità di farlo, potrebbe fugare ogni dubbio.
Scrivere su, di, per Pantani
Su di lui c’è un’intera bibliografia che si occupa delle sue gesta sportive abbinate a quelle umane, più intime e personali. Conoscere il ciclista è più facile, basta scorrere tutti gli elenchi di vittorie, tempi, numeri e maglie rosa indossate. La carriera di ogni singolo sportivo è costellata da piazzamenti, vittorie, medaglie, il cui rovescio nasconde però, talvolta, sofferenza, angoscia, dolore e molto altro.
Ma allora come si può ancora scrivere su, di, per Pantani? Una risposta la dà il giornalista Marco Pastonesi nel suo Pantani era un dio.
Questo non è un libro sul bene e sul male. La bicicletta è il bene: bella, agile, svelta, silenziosa, poetica, compagna. Il doping è il male: ipocrita, imbroglione, immorale, illecito, inguaribile, complice.
Il titolo può sembrare assolutorio, se non esaltante o addirittura profano. Ma rende l’idea di una fuga troppo in alto. Anche Prometeo era un dio. O si credeva un dio. O gli avevano fatto credere di esserlo.
Frasi da segnare
Quello che mi salta subito all’occhio, dopo solo poche pagine, è che il libro è ricco di frasi da segnare e che il mio taccuino, dove sono solita prendere nota, si riempirà ben presto. Sono abituata ad appuntarmi tutto quello che credo possa dare un valore aggiunto al mio testo o semplicemente invogliare qualcuno ad avvicinarsi a un’opera. E, dopo pochissime battute, ecco che le parole si allineano così, una dietro l’altra.
Marco che va matto per il cioccolato, e per la cioccolata, e per la Nutella, che a tredici anni costruisce una radio, tutto da solo, che è affascinato dagli orologi, tic tac, tic tac, tic tac. Marco che alla mamma dice “Tonina fai la brava, che io sono quello che ti deve badare quando sarai vecchia”, e mamma Tonina lo chiama “Inoki” come Antonio Inoki, il campione di wrestling, lotta libera e finta. Marco che ne combina una, il nonno Sotero gli corre dietro, lui scappa e poi si ferma, perché teme che al nonno venga l’infarto.
Spesso è nel momento dei saluti che cominciano gli incontri. Troppo tardi.
A’t salut burdèl.
A’c videm prest.
(Il libro è disseminato da inserimenti di frasi tratte dal dialetto romagnolo, che immettono il lettore in una territorialità dalle forti radici distintive).
La parola agli altri
Il giornalista fa un passo indietro rispetto a una narrazione più classica, il libro non è una cronistoria della vita di Marco Pantani, da bambino a ciclista famoso e affermato. Al lettore è come se venisse consegnata la scatola di un puzzle e ogni singolo pezzettino, rappresentato dalle varie testimonianze raccolte e inserite all’interno del volume, serve per comporre l’immagine finale a cui, però, manca un tassello fondamentale. Proprio lì, nel mezzo di quella figura di un uomo tutto muscoli dalla testa pelata che si inerpica su una salita tortuosa, c’è il vuoto di un pezzo che completerebbe il quadro rendendolo perfetto nella sua interezza.
Quello che è certo è che, mentre compongo il mio personalissimo puzzle fornitomi da questo testo, visualizzo immagini precise di un ragazzino poi fattosi uomo, un vincente ma con debolezze più o meno palesi. E mi sembra d’un tratto di vederlo pedalare su un’irta montagna con la bandana in testa o di sentirlo cantare a squarciagola Romagna mia in auto tra amici. Mi viene un certo magone nel leggere delle sue debolezze e fragilità. Pantani, osannato e circondato dai tifosi. Marco, un uomo solo.
Qui non c’è un giudizio, non c’è sentenza, non c’è verdetto, non c’è ordine di arrivo né classifica generale. Ognuno ha la sua versione. E c’è un finale per tutti: una morte da solista, da solitario. Torrida. E triste.
